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Il linguaggio delle immagini - La natura delle immagini

di Laura Albano

“L’arte del passato non esiste più nelle forme in cui esisteva un tempo. La sua autorità si è persa. Al suo posto vi è il linguaggio delle immagini. Ciò che conta ora è chi usa questo linguaggio e a quali fini.”
(Questione di sguardi, John Berger)

“L’immagine non è un oggetto inerte della contemplazione disinteressata, ma un corpo vivente, un’entità energetica che ci attrae o ci respinge, ci incanta o ci ferisce.”
(Teorie dell’immagine – il dibattito contemporaneo, AA.VV., a cura di A. Pinotti e A. Somaini)

Le immagini e noi

Per avvicinarsi alle immagini è necessario farsi strada tra molte contraddizioni: e quindi, prima di tutto, riconoscerle. Ci sentiamo ripetere – e ripetiamo - continuamente che viviamo nella civiltà dell’immagine, che siamo sommersi dalle immagini, eccetera. Produciamo noi stessi quotidianamente le immagini con sempre nuovi dispositivi, e le usiamo per le nostre condivisioni e conversazioni. Nonostante questo molte implicazioni delle immagini ci sfuggono. La loro onnipresenza non garantisce accessibilità e comprensione, anzi: come ogni eccesso, finisce per provocare anestesia e perdita del senso.

Illusione o conoscenza?

Il predominio del linguaggio verbale fa sì che una cultura dominata dal visuale, come quella che si sta affermando, venga vista come una cultura di seconda qualità. Eppure le immagini sono probabilmente il mezzo più antico di trasmissione materiale di cultura tra gli uomini. Ed esercitano potere, fascino, persino paura. L’origine della diffidenza nei loro confronti viene fatta tradizionalmente risalire alla condanna di Platone nei confronti dell’arte in quanto legata alle emozioni, e in quanto copia di una copia (quale era per lui il mondo sensibile rispetto alla Verità delle Idee): anche se, in fondo, egli concedeva che questa copia di terzo grado potesse indirettamente stimolare la conoscenza. La reputazione delle immagini ha continuato ad avere sorti alterne all’interno della civiltà occidentale, oscillando tra l’esser vista come strumento di inganno oppure di conoscenza; due poli d’interpretazione che appaiono validi ancora oggi.

Il predominio del verbale e la rivincita del visuale

La legittimità culturale del visivo vede un salto d’importanza con il Rinascimento italiano: l’arte, che svolgeva finora prevalentemente una funzione illustrativa e rituale al servizio della religione, arriva a conquistare un mercato di amatori alla ricerca del piacere estetico. Nella seconda metà del Novecento con l’affermarsi degli studi semiotici e semiologici anche l’immagine pubblicitaria, fotografica, filmica (che non fa parte cioè della cultura “alta”) viene ammessa come oggetto di studio nelle università, al prezzo però di essere costretta sotto il dominio del verbale. All’interno di una visione del mondo come sistema di segni si ricerca il senso delle immagini analizzandone la struttura con metodo e strumenti rigorosi, nati dallo studio della lingua verbale.

Tale metodo ha prodotto risultati di spessore, ma il suo uso ha evidenziato punti deboli nella mancata attenzione al contesto e allo spettatore, e nel rischio che l’analisi possa esaurirsi in se stessa se non collegata ad altri saperi sull’immagine (storia dell’arte, iconografia, approcci psicologici, sociologici, antropologici).

Alcuni studiosi sostengono che l’immagine non può essere ridotta ad un insieme di segni organizzabili come parole: si fa sempre più strada l’evidenza che immagini e parole, anche se nella quotidianità interagiscono e si influenzano a vicenda, non sono riducibili le une alle altre. Da circa trent’anni a questa parte (in Italia con ritardo), in contrasto con la visione del “mondo come testo scritto” tipica dell’approccio strutturalista-semiotico, gli studiosi hanno iniziato a parlare di svolta iconica per indicare l’attuale prevalenza del visuale in un sempre maggior numero di ambiti della rappresentazione del mondo e della sua conoscenza.

Ampliare il punto di vista

I tradizionali approcci di studio non bastano più per arginare l’onnipresenza e la mutevolezza del visivo. Per fronteggiare un potere nuovo si rendono necessari nuovi strumenti. Il dibattito contemporaneo sta cercando una prospettiva unitaria da cui affrontare la materia, assemblando e coordinando più punti di vista: storia dell’arte (che già dalla seconda metà dell’ottocento aveva iniziato ad aprirsi alle contaminazioni), filosofia, antropologia, psicologia della percezione, semiologia, neuroscienze.

Anche se difficilmente si arriverà a formulare una “scienza autonoma” delle immagini, si sta affermando la necessità di una “tattica” (in senso militare, com’è stata definita dagli stessi studiosi) per difendersi dal nemico: i cosiddetti visual cultural studies. Si tratta di un approccio ampiamente interdisciplinare, che indaga “la dimensione visiva nelle sue varie forme, sotto il profilo storico, sociale, politico, ideologico e altro” (N. Mirzoeff, “Introduzione alla cultura visuale”) e nasce dall’esigenza crescente di studiare l’immagine come interazione composita di segnale, medium di trasmissione e risposta dell’osservatore.

C’è chi preferisce parlare di necessità di un’iconologia critica o di teoria dell’immagine: l’esigenza di fondo resta il bisogno di un metodo di studio che superi i confini temporali tra le aree da studiare e la distinzione tra cultura alta e bassa (già messa in discussione dall’arte contemporanea).

Vedere con il corpo?

Può sembrare un metodo troppo vasto: ma sempre più vasto è lo sconfinamento del visivo. Sempre più zone del quotidiano e del sapere vengono pensate e rappresentate per immagini.

Nuovi interrogativi si pongono: ad esempio l’interdipendenza tra immagini esterne (percepite) ed interne (pensate), campo ancora da esplorare che riguarda da vicino sia le politiche delle immagini sia la costruzione dell’immaginario di una società. Le recenti scoperte neuroscientifiche, infine, tra cui quella dei neuroni specchio, ipotizzano un ruolo attivo delle immagini nel provocare reazioni empatiche nell’osservatore, grazie a universali “meccanismi incarnati” (embodied simulation) in grado di simulare azioni, emozioni e sensazioni corporee. Non è del tutto una novità: nella seconda metà dell’ottocento in vari studiosi tedeschi di arti visive compariva l’idea di un coinvolgimento corporeo dello spettatore in risposta a opere d’arte. E lo storico Bernard Berenson, studiando i pittori del Rinascimento, teorizzava che l’osservazione del movimento rappresentato nelle opere d’arte potenziasse la consapevolezza di analoghe possibilità muscolari nel proprio corpo. Nel corso del novecento l’aspetto emozionale-empatico fu bandito dalla psicologia dell’arte in quanto elemento soggettivo non misurabile, a favore di un approccio cognitivo e distaccato: oggi però lo studio delle reazioni emotive ed empatiche è scientificamente supportato, il che rende possibile integrarlo nella trattazione.

L’immagine vista da vicino

Conoscere meglio la natura delle immagini può servire ad essere spettatori più preparati e meno vulnerabili al potere dei media, consumatori più consapevoli delle proprie scelte, cittadini attivi con capacità di intervenire dove ci sia da difendere la democrazia dal potere dei media. Serve inoltre a sapere riconoscere la nostra posizione nel sistema di interazioni simboliche comunicative in cui ci muoviamo. I modi di produzione e di uso delle immagini sono tanti e diversi. Un’immagine ci rinvia sempre ad altre immagini provenienti da altre fonti, da altri periodi, altre tecniche di rappresentazioni: il nostro sguardo è la risultante complessa dell’accumulo, nel corso della storia, di tutte queste immagini. Dalle immagini rupestri della preistoria all’immagine digitale di oggi, è un po’ come se tanti strati geologici venissero a costruire il nostro paesaggio visuale.

Le considerazioni che faremo valgono per molti tipi di immagine, ma in particolare ci riferiremo all’immagine fotografica.

Immagine come rappresentazione

La prima verità da tener presente sull’immagine è che l’immagine non è la verità.

Come la parola, un’immagine non è la prova di niente. Sono il contesto, il supporto, l’uso e altri fattori che possono farne una testimonianza sulla realtà – allo stesso modo in cui non sono le parole o le frasi in sé a mentire o a dire la verità ma colui che le pronuncia.

L’immagine è sempre una rappresentazione, distinta da ciò che rappresenta (il suo “referente”). Come tale è frutto di regole convenzionali: prima fra tutte la resa bidimensionale dello spazio attraverso le leggi della prospettiva lineare. E’ noto che a monte della fotografia come invenzione chimica, avvenuta nella prima metà dell’800, sta il principio ottico della camera oscura (la luce che passa da un foro in una stanza oscurata produce sulla parete immagini capovolte, principio su cui sono costruiti gli apparecchi fotografici), messo a punto nel Rinascimento come sistema di regole matematiche ed utilizzato dai pittori per ottenere verosimiglianza nella rappresentazione. La prospettiva da allora è stata eletta a metodo scientifico e oggettivo per eccellenza: ma resta il prodotto di una precisa epoca e cultura – una scelta tra altre possibili.

E’ stato scritto molto sul significato culturale e simbolico dell’invenzione della prospettiva e della sua consacrazione a norma: si rimanda al fondamentale “La prospettiva come forma simbolica” di Erwin Panofsky (1975). Quello che interessa qui è sottolineare la relatività del concetto di vero e di verosimiglianza quando si parla di rappresentazione.

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