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LA TV NELL’ERA DEL DIGITALE E DI INTERNET (DAL 2001 AD OGGI)

La fase che va dal 2001 al momento attuale inquadra il boom dapprima di internet, inteso come diffusione presso la maggioranza della popolazione per uso anche privato, e poi della TV digitale, per l’adozione del sistema anche nelle trasmissioni a diffusione terrestre, con spegnimento delle vecchie trasmissioni analogiche.

È tuttavia dal satellite che arriva lo sviluppo più rapido e all’avanguardia del settore: nel 2001 Telepiù inizia ad essere ricevibile anche tramite la rete telefonica Fastweb, che usa il digitale per rilanciare la TV via cavo in Italia. Il network di proprietà francese viene poi messo in vendita l’anno successivo per il fallimento di Canal Plus, ma finisce presto acquistato dall’anglo-australiano Rupert Murdoch, che lo fonde con la sua Stream e dà vita a Sky Italia nel 2003: precedendo l’avvento del digitale terrestre, Sky moltiplica l’offerta di canali e di servizi interattivi, instaurando un altro regime di effettivo monopolio, che durerà sul satellite fino ai giorni attuali, con il consenso del pubblico che trova nei suoi notiziari e nella sua programmazione attenta al contesto internazionale un’autorevolezza e un’attualità insoddisfatte dall’offerta RAI e Mediaset.

Tuttavia il duopolio dell’emittenza tradizionale resiste, e solidamente, con i 6 canali generalisti, che continuano a darsi battaglia di ascolti puntando sulle evoluzioni degli stili propri della Neotelevisione: la stagione 2000-2001 inaugura, con l’esordio dell’edizione italiana di Grande fratello su Canale 5, un decennio segnato dai reality-show, genere che finisce via via per contagiare gran parte della programmazione televisiva coi suoi temi, personaggi, linguaggi, e contenuti estremi, trascinando anche la RAI nella competizione (La talpa, L’isola dei famosi, Il ristorante, sono tutti format trasmessi sui primi 2 canali del Servizio Pubblico), all’insegna dell’involuzione espressiva ed estetica, insieme all’omologazione delle aspettative che si strutturano nel pubblico.

Tutto ciò malgrado i dati Auditel registrino anche una netta disaffezione del pubblico verso la TV di Stato nelle regioni del Nord Italia, più sensibili all’emittenza commerciale per via della prossimità con la cultura imprenditoriale del gruppo Mediaset; il Paese diviso torna a riunirsi soltanto in occasione di eventi particolari a sfondo politico, come le fiction sui magistrati uccisi dalla mafia (Paolo Borsellino, Giovanni Falcone) e i pontefici più amati (Giovanni Paolo II), oltre agli one-man-show con mattatori al top come Fiorello, Adriano Celentano, e Roberto Benigni, in un contesto di conflittualità istituzionale a tutto campo (governi, partiti, giornalisti, magistratura) che porterà anche l’invasione della politica nei palinsesti (sia con format dedicati come Ballarò e Annozero, sia negli spazi talk di ogni contenitore aperto all’attualità, dapprima nel prime time e poi a tutte le ore della giornata).

Il 2001 è anche l’anno della nascita di La 7, creata come evoluzione di Telemontecarlo dal gruppo Telecom Italia, che intendeva costituire un “terzo polo” alternativo al duopolio RAI – Mediaset, sfruttando l’interazione col suo secondo canale, MTV Italia, e dando dunque al network una vocazione rivolta al pubblico giovane; ma la catastrofe dell’11 settembre americano e l’arrivo di Marco Tronchetti Provera alla guida di Telecom Italia inducono un repentino cambio di linea editoriale, in favore di news e approfondimento più i generi di nicchia come la cultura e altra programmazione ricercata o sperimentale, che consentiranno a La 7 di conquistare attenzione e consensi del pubblico ma molto lentamente, raggiungendo un peso economico di rilievo soltanto a fine decennio (con l’arrivo di Enrico Mentana alla direzione del notiziario), quando il sistema ormai rivoluzionato dalla digitalizzazione renderà meno utile il progetto di costituire un “terzo polo” nel panorama televisivo.

Il contesto tecnologico inizia infatti ad evolversi nel triennio 2003-2005, grazie all’avvio del digitale terrestre che però soffre di una pianificazione caotica e cucita sul duopolio, sia nell’ambito delle frequenze di emissione sia in quello degli apparecchi ricevitori; Mediaset si afferma subito come operatore egemone, con una strategia ovviamente commerciale che incentiva i servizi a pagamento, mentre la RAI arranca in netto ritardo e con molti più problemi di copertura, che tendono a rendere impopolare la scelta della transizione obbligata, seppure graduale, dal vecchio sistema analogico.

A completare il quadro della svolta contribuisce la Legge Gasparri, che nel 2004 ridefinisce l’intero settore delle comunicazioni in un’ottica di sistemi “integrati” (cioè multimediali: TV insieme a radio, stampa quotidiana, editoria cartacea, produzione audiovisiva, internet), scombinando le logiche dei tetti antitrust e norme pro-pluralismo per canali e pubblicità; inoltre prospetta una parziale privatizzazione della RAI, che resterà irrealizzata, insieme al calendario degli “switch-off” al digitale terrestre che doveva completarsi nel 2006 ma invece slitterà, in un regime di proroghe e di ampliamento graduale su base regionale, per concludersi soltanto nel 2012.

La moltiplicazione dei canali che le frequenze digitali consentono, dal canto dell’emittenza apre importanti spazi di collocazione per quei generi e programmi finora emarginati o soppressi dai palinsesti delle reti generaliste a causa dei bassi ascolti, come la cultura o anche l’evasione di nicchia, nonché per editori alternativi al duopolio terrestre; parte della competizione si sposta però sul piano della visibilità, per la conquista di numerazioni favorevoli nella folta e caotica lista dei canali, che rende disagevole l’esplorazione da parte del telespettatore. Quest’ultimo dal canto suo, con la digitalizzazione ha a disposizione molti strumenti e facoltà per strutturare il proprio palinsesto in maniera autonoma o suppergiù (con i servizi di registrazione, ma anche “timeshift” e contenuti “active”, fino alle librerie on-demand); ma il passo dalla facoltà all’effettiva dimestichezza e uso tale da cambiare le abitudini di fruizione per fette importanti della popolazione si rivela più problematico del previsto, e gli addetti che pronosticano un rapido declino della TV generalista saranno smentiti dai fatti.

L’Auditel infatti, resistendo alle polemiche sulla sua proprietà e agli indizi d’inaffidabilità sui dati (come gli alti indici di permanenza che vengono registrati anche in concomitanza di durature interruzioni del segnale), continua a premiare l’emittenza tradizionale, con flessioni minime che lasciano le briciole ai nuovi canali tematici sia terrestri (dove la RAI recupera terreno a partire dal 2009, quando il suo bouquet inizia a completarsi e la qualità dei segnali migliora) sia satellitari (dove i 2 poli varano la piattaforma TivùSat soltanto per sopperire alle carenze del segnale terrestre, ma Sky resta a dominare incontrastata, grazie anche agli accordi con gruppi editoriali come Fox e Discovery, e nel 2012 raggiungerà un bacino pari a 5 milioni di famiglie), salvo per le partite di calcio, anche perché la sovrabbondanza di canali tende a esaurire presto la programmazione in prima visione e i palinsesti si riempiono di prodotti in replica.

Mentre a guidare la schiera dei programmi che resistono saldamente sulla TV generalista, come anche i pochi che riescono a imporsi sui nuovi canali tematici più affermati come Real Time, sono sempre i generi ispirati alla neotelevisione, che manipolano l’attualità e fabbricano personaggi a valanga; l’evoluzione del comparto annovera il declino del reality classico, in favore del “talent-show” che tende però a conservare quegli stili (Amici di Maria De Filippi) o attinge a modelli stranieri (Italia’s got talent, X factor, Lo show dei record), arrivando a portare in scena anche i bambini con modalità adultizzanti (Ti lascio una canzone, Io canto). Parallelamente, la fiction nazionale dopo un periodo aureo che incoraggia il fiorire di molte factory produttive (sulla scia del successo ottenuto non solo dalle miniserie a tema storico-biografico, ma anche melò con ambientazione d’epoca come Elisa di Rivombrosa e Orgoglio), da metà decennio declina bruscamente di qualità e gli ascolti finiscono per premiare in prevalenza i prodotti volgari e di facile effetto (con pochissime eccezioni, tra cui Il commissario Montalbano che resisterà fino ai giorni attuali), senza che il settore recuperi popolarità presso il pubblico italiano né competitività nel contesto internazionale (che nel frattempo ha visto invece affermarsi sulla scia della migliore serialità statunitense anche molte nazioni con una tradizione assente o meno prestigiosa rispetto al Belpaese nel settore della narrazione audiovisiva).

E l’evoluzione del rapporto tra TV e pubblico, nei giorni attuali che corrispondono ai primi anni ’10 del XXI secolo, permane all’insegna delle logiche commerciali senza tregua, tanto sul fronte delle emittenti private quanto nell’ambito dell’emittenza preposta alle funzioni di servizio pubblico. Soprattutto nella programmazione d’intrattenimento e infotainment confezionata per la sera, che corrisponde all’orario di maggiore ascolto (circa 27 milioni d’individui nei mesi non estivi), i palinsesti pullulano di programmi a lunga e lunghissima durata, che coprono più fasce orarie (e più settimane possibile) consentendo di ridurre i costi di produzione per le emittenti (perché 1 programma lungo costa meno di 2 o 3 programmi brevi), e incentivando un ascolto fatto di contatti (o comunque di permanenza limitata) che agevola il conseguimento di numeri accettabili secondo gli indici Auditel; il tutto a scapito della qualità dei contenuti (la durata lunga esaurisce presto le migliori idee degli autori, dopodiché l’esigenza di non annoiare favorisce il ricorso ai facili effetti, ai linguaggi estremi, al parlato vacuo) e poi della visione (perché reggendo raramente la visione dell’intero programma, il pubblico si disabitua alla fruizione di unità comunicative compiute e ordinate).

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